La Corte Costituzionale, con la sentenza n. 50 del 18 febbraio 2010, ha dichiarato non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 637 co. 3 c.p.c. che consente agli Avvocati di rivolgere la domanda di ingiunzione per il pagamento delle proprie spettanze professionali al giudice competente per valore del luogo ove ha sede il consiglio dell’ordine al cui albo sono iscritti. Tale norma si applica anche ai Notai, relativamente al Distretto Notarile di appartenenza.
Secondo la Corte, detta norma “individua un criterio di competenza territoriale, facoltativa e concorrente con quelli di cui al primo e al secondo comma del medesimo articolo” ed ha già superato un primo esame di costituzionalità con la sentenza n. 137 del 1975.
Il giudice delle leggi individua la ratio della norma nella finalità di agevolare l’avvocato, per consentirgli di concentrare le cause, nei confronti dei clienti, nel luogo in cui ha stabilito l’organizzazione della propria attività professionale, cioè la sede principale dei propri affari ed interessi; secondo la corte, poi, la ratio della disposizione non è venuta meno per effetto della modifica introdotta dall’art. 18, comma 2, della legge n. 14 del 2003, il quale ha soltanto inserito nell’art. 17, primo comma, n. 7, della legge professionale degli avvocati (regio decreto-legge 27 novembre 1933, n. 1578, recante «Ordinamento delle professioni di avvocato e procuratore», convertito, con modificazioni, dalla legge 22 gennaio 1934, n. 36), dopo la parola “residenza” l’espressione “o il proprio domicilio professionale”, rendendo così alternativo per l’iscrizione nell’albo, tra gli altri, il requisito soggettivo della residenza o del domicilio professionale.
L’intervento legislativo in questione, d’altronde, si è reso necessario perché la Corte di giustizia (provvedimento del 7 marzo 2002 in causa C-145/99) ha ritenuto in contrasto con l’art. 43 del Trattato CE del 25 marzo 1957 (Trattato istitutivo della Comunità Economica – testo vigente) l’obbligo imposto agli avvocati di risiedere nella circoscrizione del tribunale da cui dipende l’albo al quale essi sono iscritti.
Per la corte “il domicilio professionale – che non di rado coincide con la residenza – s’identifica con la sede principale degli affari ed interessi del professionista (art. 43, primo comma, codice civile), cioè con il luogo in cui egli esercita in modo stabile e continuativo la propria attività. Si tratta, quindi, di un concetto verificabile sulla base di dati oggettivi (frequenza e continuità delle prestazioni erogate, numero dei clienti, giro di affari), suscettibili dei dovuti controlli ad opera del Consiglio dell’ordine competente. Anzi, proprio con riferimento a tale concetto ben si giustifica lo scopo «di agevolare il professionista, che sarebbe invece costretto a seguire le cause relative al recupero dei crediti professionali in luogo diverso (o addirittura in luoghi diversi) da quello in cui egli avesse attualmente stabilito l’organizzazione della propria attività professionale»“.
Peraltro, la Corte ritiene che la suddetta norma sia costituzionalmente legittima anche sotto il profilo della disparità di trattamento, dal momento che “per quanto riguarda il riferimento «agli altri cittadini» … il richiamo non è pertinente, perché la previsione normativa concerne i rapporti professionali tra gli avvocati ed i clienti, sicché gli altri cittadini non ne sono destinatari” come pure che “in relazione ad altre categorie professionali, che non possono avvalersi della stessa norma, si deve osservare che ogni professione presenta caratteri peculiari idonei a giustificarne una disciplina giuridica differenziata“; e tali peculiarità sono già state poste in luce per la professione legale con la sentenza di questa Corte n. 137 del 1975.
In conclusione, relativamente al rapporto tra l’avvocato e il cliente, la corte ritiene che la facoltà di scelta dell’avvocato non contrasta con il principio di eguaglianza, essendo essa frutto di una scelta non irragionevole del legislatore.
Al seguente link, il testo integrale della sentenza.
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